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Written by Ileana Mortari | |||
Tuesday, 30 October 2018 18:32 | |||
1 novembre 2018 Festa di tutti i santi – Rito romano e ambros. Matteo 5,1-12: lun. 1° settim. Quares. Ambros. lun. 10° “ Rito romano
“Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”
(Matteo 5, 1-12)
di Ileana Mortari
Il brano delle “Beatitudini” introduce il famoso “Discorso della montagna” di Matteo, il primo di cinque grandi discorsi in cui l’evangelista ha raccolto tutti gli insegnamenti di Gesù durante il suo ministero, raggruppandoli per argomenti e intervallandoli con parti narrative sull’attività e gli incontri del Nazareno.
Il luogo, teatro del primo discorso, è “una montagna” su cui Gesù era salito (v.1); viene spontaneo pensare alla zona collinosa, spesso nominata nei sinottici, che sovrasta il lago di Galilea. Ora, poiché Luca, nel passo parallelo, dice che Gesù pronunciò il discorso delle Beatitudini in un luogo pianeggiante, è probabile che Matteo abbia attribuito al termine “montagna” un significato non geografico, ma teologico, volendo richiamare alla mente dei lettori lo scenario in cui fu promulgata l’antica Legge e dunque il monte Sinai. Analogamente, Gesù appare come il nuovo Mosè, che delinea per i suoi seguaci un nuovo “decalogo”, la nuova “legge” di quel “Regno dei cieli” che Egli è venuto ad annunciare e a inaugurare.
Che cos’è il “Regno dei cieli”? L’espressione è propria di Matteo, che la preferisce a “regno di Dio”, in segno di rispetto per il nome divino (che i Giudei evitavano di pronunciare) e anche per sottolinearne la alterità e trascendenza rispetto al mondo degli uomini. “Regno di Dio” è una realtà complessa e misteriosa, che è impossibile definire e di cui infatti Matteo parlerà attraverso le parabole del suo secondo grande discorso (cap.13, 1-52). In prima battuta, possiamo dire che esso è il progetto e l’azione di Dio per salvare gli uomini, preannunciato nel Primo Testamento, e che si rivela e si attua nella storia attraverso la parola e l’opera di Gesù.
Ora le Beatitudini rappresentano le condizioni per accedere a tale Regno (“Beati i poveri…..perché di essi è il Regno dei cieli”,vv. 3 e 10), condizioni imprescindibili per conseguire quella dimensione di “felicità” che lo caratterizza.
Le successive espressioni di Gesù sono a prima vista sconvolgenti o quanto meno difficili da accettare, perché sembrano avallare e “beatificare” situazioni umane di disgrazia, bisogno, sofferenza, persecuzione…….come è possibile che siano felici i miseri e i colpiti da sciagure?
Ma il senso cambia radicalmente se leggiamo il passo nel suo contesto biblico e soprattutto se intendiamo correttamente i “paradossi” pronunciati da Gesù.
“Beato” (makarios in greco e ashrè in ebraico) aveva un preciso significato nel Primo Testamento. Presso il popolo di Israele beato era chi aveva raggiunto la pienezza della vita, che, prima dell’esilio babilonese, veniva identificata nell’abbondanza di beni materiali, nella felicità familiare, nella prosperità. Dopo l’esilio, beato era colui che si lasciava guidare dalla sapienza di Jahvé espressa nella Torah, senza cedere alle seduzioni del male; colui che amava la Legge trovando in essa la propria soddisfazione (tema frequente nei Salmi, particolarmente esaltato nel salmo 118-
119). C’era poi una ricorrente promessa nei libri profetici, specie in Isaia: “Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo di Israele” (Is. 29, 18-19)
Ebbene, in Matteo 5 Gesù proclama che le promesse si sono realizzate, che ora i poveri sono felici, beati. Già, ma che cosa si intende per “povero” (“ptochos” in greco e “anawim” in ebraico)? Secondo la Bibbia egli è il bisognoso, colui che manca dell’essenziale per vivere e che, quindi, dipende da altri per la sua sopravvivenza; è l’oppresso, la vittima indifesa in balia dei potenti. Ma il termine ebraico, oltre a questo, designava i giusti, i miti, gli umili, coloro che confidano solo in Dio e non cercano altre forme e fonti di sicurezza.
Ora, mentre Luca, nel passo parallelo, si limita a nominare “i poveri” (Luca 6, 20), Matteo si preoccupa di aggiungere “in spirito”, proprio perché vuole far capire che la vera povertà (che può coincidere o no con quella materiale) è il distacco e la libertà dai beni, il non cercare in essi forme di appoggio o sicurezza, perché al contrario, come già nel Primo Testamento, ci si affida a Dio solo.
Come dice il biblista Don Bruno Maggioni, “il povero di spirito è soprattutto colui che concepisce se stesso (esistenza, competenza, capacità di ogni genere) in termini di gratuità e non di possesso: una gratuità che, essendo dono nella sua origine, continua ad essere dono nel suo uso, e si fa servizio” (“Il racconto di Matteo”, pag.68).
Ecco, per questo Gesù chiama “beati” i poveri, non tanto per il fatto di essere poveri, ma perché sono totalmente affidati a Dio, hanno fatto della Sua la loro logica, hanno voltato le spalle ai criteri del mondo, e allora “di essi è il regno dei cieli” (v.3). Il Maestro poi continua indicando le altre condizioni necessarie per accedere al Regno; e ancora l’essere afflitti, miti, misericordiosi, etc. conta non in sé, ma perché tutte queste situazioni sono oggetto della attenzione, consolazione, misericordia, amore di Dio; e non solo nel futuro, ma inizialmente già in questa vita, visto che “di essi è il regno dei cieli” (vv.3 – 10 – 12).
Certo non è facile imboccare la strada delle Beatitudini, ma il cristiano ha dinanzi a sé l’esempio di Gesù, che per primo le ha vissute in modo totale e che può aiutarlo a intraprendere l’ardua, ma gioiosa via del Regno dei cieli.
Con grande acume, papa Paolo VI osservò un giorno: “Il cristianesimo non è facile, ma felice!”
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4 novembre 2018 XXXI° domenica B – Rito romano
L’amore di Dio e del prossimo
(Marco 12, 28-34)
Riflessione comunitaria di un gruppo di lectio divina
Siamo alla fine della terza giornata di Gesù a Gerusalemme e, dopo gli scontri con le autorità giudaiche, ora leggiamo di incontri con esito positivo. Uno scriba chiede a Gesù qual è il primo dei comandamenti. Non è una domanda facile, se pensiamo che all’interno del giudaismo esistevano 613 precetti, che costituivano la “torah” (=legge) e, pur essendoci una distinzione tra precetti maggiori e minori, gli ebrei erano tenuti ad osservarli tutti!
Si rendeva dunque necessario individuare un comandamento che stesse alla base di tutti, che potesse un po’ riassumerli tutti, così che chi lo osservava pienamente poteva adempire tutta la legge. E’ su questo che verte la domanda dello scriba, che ricerca il senso, il cuore della Legge.
Gesù risponde citando due testi della Scrittura: “Ascolta Israele:….Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.” (cfr. Deuter. 6,4-5: era la preghiera quotidiana del pio israelita) e “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (cfr. Levitico 19,18). Fin qui Gesù non dice nulla di nuovo, perché l’amore verso Dio e il prossimo era già presente nella Scrittura. La novità è che il Nazareno fonde i due comandamenti in uno solo, dal momento che essi costituiscono le due facce di una sola medaglia e l’uno non può stare senza l’altro.
Cerchiamo di capire e approfondire il significato di questi due comandamenti così strettamente uniti.
E’ possibile amare Dio nel modo detto dal Deuteronomio solo se si ha ben chiara l’affermazione che precede il comandamento: “Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (Deut.6,.4) Sappiamo quanto era pregnante per un ebreo l’espressione: “Il Signore è l’unico Signore; non ci sono altri dei”; l’ebreo lo sapeva benissimo, avendo fatto l’esperienza di Dio nella storia: il Signore è un Dio che salva attraverso il miracolo del M.Rosso, che conduce alla terra promessa; è il Dio dei profeti, che ama il suo popolo di un amore unico e appassionato, che è capace di amare e salvare anche quando il popolo lo tradisce, che si manifesta come il Dio vivente, potente e dunque degno di essere lodato, ringraziato, amato.
Dio si rivela ad Israele come il Dio che ama, che conduce per mano, che si prende cura del proprio figlio (cfr.Osea 11,1-9) e che, proprio perché non è uomo, sa amare di un amore profondo, totale e incondizionato. A un Dio che ama così, anche l’uomo deve rispondere con un amore totale e incondizionato, proprio come dice Deuteronomio 6,5 citato da Marco 12, 29-31:
“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore…..”: il cuore è l’intimo dell’uomo, la sua coscienza, il centro della sua persona, il luogo in cui avvengono le decisioni fondamentali, in cui ciascuno gioca la sua libertà. Allora amare Dio con tutto il cuore vuol dire amarlo con tutta la nostra persona, decidersi per Lui, affidarGli la nostra libertà, la realizzazione di noi stessi, metterGli a disposizione ciò che noi siamo, abbiamo, facciamo. Potremmo dire che amare Dio con tutto il cuore è anche pregare, perché “pregare è pensare a Dio amandolo” (Charles de Foucault).
“….con tutta la tua mente……”: anche la mente, cioè l’intelligenza, è coinvolta nell’amore, perché Dio vuole essere conosciuto. Dio è talmente grande che la mente non può afferrarlo completamente, ma nello stesso tempo Dio si rivela, si fa conoscere e certamente pure la nostra mente può conoscerlo, anche perché Dio ha parlato e ha agito nella storia nella persona di Gesù, il Logos incarnato, la Parola, accessibile all’umanità. Amare Dio con tutta la nostra mente significa allora ascoltare, assimilare, nutrirsi della Parola di Dio.
“…….e con tutta la tua forza”: questo significa che occorre amare Dio con tutte le proprie energie. Qunado Gesù al Getsemani chiederà ai suoi discepoli di vegliare un’ora con Lui, Marco annota che i discepoli non riescono a farlo, perché i loro occhi erano appesantiti e non avevano la forza di vegliare. La forza significa dunque quell’energia che bisogna possedere nel momento della prova, della difficoltà, nel momento in cui amare è difficile e si richiede coraggio per mantenere la propria fedeltà-amore al Signore.
A questo punto viene spontaneo chiedersi come sia possibile amare Dio di un amore così unico, totale, incondizionato e in ogni circostanza, bella o brutta, della nostra vita. All’uomo con le sue sole forze questo non sarebbe certo possibile; ma Dio, che ci ama proprio in questo modo, con tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze, Lui sì può suscitare in noi un amore altrettanto radicale e forte, aiutandoci a superare i nostri limiti.
E poi c’è la seconda faccia della medaglia, il secondo comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”: come dice Giovanni, “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1° Giov.4,20); c’è infatti un rapporto strettissimo tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Dio non ci “ruba” l’amore per Sé, ma desidera che il rapporto di amore che viviamo con Lui si dilati e si effonda sui fratelli.
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18 novembre 2018 33° DOMENICA RITO ROMANO ANNO B Letture : Daniele 12, 1-3
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